Prosegue la nostra rubrica dedicata alle interviste “segnanti” 🙂 Oggi intervistiamo Virginia Bagnoli, Senior Manager al Climate Group, una non-profit internazionale specializzata in consulenze di public policy per la riduzione dei gas serra.
- La mission del Climate Group è “Driving Climate Action. Fast”. Conoscendo i tempi dilatati dei processi di policy making partecipati, come quelli legati al tema del Cambiamento Climatico, quanto tempo davvero ci resta per poter affrontare la crisi climatica?
Stiamo vivendo i primi anni cruciali di quello che molti chiamano il “decennio del clima”: le scelte che facciamo oggi determineranno se riusciremo o meno ad arrivare ad un’economia a zero emissioni nette tra circa 30 anni e quindi rallentare significativamente gli effetti più devastanti del cambiamento climatico, come l’innalzamento delle temperature o l’acidificazione degli oceani. Nel 2015 l’Accordo di Parigi è stato a tutti gli effetti una rivoluzione, e secondo me uno dei tratti più importanti di quel testo è il concetto, e obbligo, di rivedere i target a scadenza fissa ogni 5 anni perché se non funzionano vanno migliorati. Abbiamo questo decennio per creare la giusta infrastruttura di politiche, leggi e investimenti per metterci sulla strada per zero emissioni nette. Farlo dopo sarà molto più pericoloso, e costoso.
2. Le politiche climatiche appaiono sempre più trasversali e sistemiche. Un fronte particolarmente interessante è quello della giustizia ambientale, che collega gli impatti negativi del climate change a temi di inclusione sociale. A tuo avviso, come si può far emergere ulteriormente questo tema di distribuzione ineguale degli impatti climatici negativi, nelle agende di policy dei governi?
Proprio la prima settimana di giugno, con il mio nuovo progetto Net Zero Futures, organizzeremo un incontro di “training” per i governi che fanno parte del nostro network su come porre principi di equità e di una transizione energetica giusta al centro di piani climatici di lungo periodo. Spesso sono proprio i governi più vicini ai cittadini, come città e regioni ad agire per primi, a integrare principi di “just transition” nelle loro politiche. La cooperazione internazionale secondo il modello “peer-to-peer” (quindi scambi tra esperti di politiche pubbliche nei governi stessi) in questo senso aiuta molto: in primo luogo crea un certo tipo di “pressione” tra pari e spinta a non fare gli stessi errori, poi si da maggiore fiducia a policy-makers per non sentirsi soli e nell’applicare soluzioni che hanno già funzionato altrove, con le dovute modifiche ovviamente.
3. Il tema del greenwashing è particolarmente importante quando si parla dell’impegno del settore profit in ambiento ambientale. Egualmente, molte NGO e Think Tank sono stati accusati di collaborare con i principali inquinatori per attività di comunicazione e sensibilizzazione. Qual è il vero limite tra il greenwashing e la necessità di sviluppare soluzioni che siano di sintesi tra attori profit/non-profit e pubblici?
Quando si parla di greenwashing, in particolare su azioni per mitigare il cambiamento climatico, ormai le aziende hanno una nuova strategia: siccome è completamente impossibile contestare i dati scientifici e le prove che gli effetti della crisi climatica sono davanti ai nostri occhi, ha preso piede il concetto di “Delay is the new Denial”. Se negli anni 90 le oil&gas negavano la gravità della crisi climatica, oggi semplicemente ne ritardano le soluzioni con piccole azioni che nulla hanno a che vedere con l’abbattimento delle emissioni (vedi piantare alberi). Le soluzioni in realtà ci sono per le aziende, che devono intraprendere un percorso di riduzione del proprio impatto sul clima in maniera trasparente. Ad esempio l’iniziativa Science Based Targets (SBTi) fornisce gli standards che imprese, sia multinazionali che PMI, devono seguire per delineare un piano di riduzione delle emissioni in linea con la scienza e le controlla nel tempo.
4. Gli impegni climatici sono supportati anche da modelli di produzione e consumo più sostenibili. Pensi che su questo aspetto il modello di crescita di molti Paesi in Via di Sviluppo stia maturando verso una sensibilità più green o resta un tema tipico delle economie più mature?
Mary Heglar, esperta e attivista americana per il clima ha detto “The thing about climate is that you can either be overwhelmed by the complexity of the problem, or fall in love with the creativity of its solutions”, che trovo una frase stupenda e così vera. Non sono sicura di poter parlare di “sensibilità green” in altri paesi, ma di sicuro sono convinta che le soluzioni pulite ci siano già e costino meno (come l’elettricità dal vento o dal sole abbinata ad accumulatori) di quelle fossili nella maggior parte del mondo. I paesi industrializzati devono assolutamente aumentare i fondi a supporto di questa transizione energetica nei paesi emergenti e smettere di investire in fonti fossili a casa loro. Parlo del settore energetico perché è quello più responsabile di gas serra in termini assoluti, e il nuovo comunicato dal G7 di questi giorni impegna le sette nazioni a fermare immediatamente investimenti all’estero di nuovi impianti a carbone. Una buona notizia, ma sarebbe stato meglio se avessero aggiunto subito anche petrolio e gas fossili. La Cina ha annunciato di voler diventare carbon neutral entro il 2060: chiaramente una mossa dettata dall’opportunità economica di diventare leader mondiale in tecnologie green come auto elettriche, batterie, pale eoliche e pannelli solari non certo per salvare gli orsi polari (passatemi un pizzico di cinismo). Dall’altro lato, tutto indica che grandi compagnie petrolifere statali in Indonesia o Arabia Saudita pianificano di spendere più di 400 miliardi di dollari per espandere infrastrutture e esplorazione di oil & gas, del tutto incompatibile con qualsiasi piano a zero emissioni nette entro metà secolo.
5. Se dovessi individuare due processi/fenomeni/iniziative promettenti, a livello di policy ambientali globali, quali sarebbero?
Io sono una grande fan dei piani di decarbonizazzione di lungo periodo, sia a livello statale che regionale. Sono un elemento essenziale per mandare un messaggio certo e chiaro a investitori, aziende e cittadini che il viaggio verso emissioni nette zero è iniziato, e che c’è un piano per arrivarci settore per settore, a seconda dell’infrastruttura economica e sociale di ciascun paese. Alla fine, se ci pensate, è così che hanno vinto i colossi del petrolio, gas e carbone per decenni: perché definiscono piani di sviluppo e investimento di lungo periodo come nessun altro settore, anche di 10 o 20 anni. Non come in politica, dove se va bene ogni 5 con elezioni e un nuovo governo tutto comincia da capo.
L’altro processo, un po’ più specifico, è la grande rivoluzione nei trasporti su strada. Tredici nazioni ad oggi hanno introdotto uno stop alla vendita di auto a combustione interna tra il 2025 e il 2040. E se ancora capisco chi non si fida della durata delle batterie per viaggi lunghi, mi è del tutto incomprensibile come in un Paese come l’Italia i motorini non siano tutti elettrici, per coprire piccole distanze. Credo che quella sarà la prossima rivoluzione, il trasporto 100% elettrico su due ruote, che riduce inquinamento acustico, dell’aria e del clima.
Alla prossima intervista!