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Consiglio di lettura De-LAB

Il libro “Città prossime” di Cristina Tajani – Guerini Associati Edizioni – somiglia ad uno sport olimpico a noi caro: la scherma. Si divide in 9 capitoli asciutti e argomentati, che conducono il gioco spaziando tra letteratura internazionale ed esperienze vissute in prima persona, tratte dai due mandati come Assessora al Lavoro del Comune di Milano. Il lettore è accompagnato in una serie di ragionamenti che inanellano il vissuto delle policies urbane di Milano pre e post pandemia, fino alla chiusura di ogni capitolo che arriva come una stoccata finale, diretta, chiarissima ed indimenticabile. Un libro immediato, preciso, finalmente in grado di fare ordine tra i macro fenomeni che hanno caratterizzato le nostre comunità urbane in un tempo incerto come quello che stiamo vivendo e che questa pubblicazione ha il pregio di analizzare in modo accessibile e stimolante. Da leggere assolutamente, come un manuale, come un saggio, come un romanzo di cui continuiamo, nonostante tutto, ad essere i protagonisti.  

Ad inizio libro la citazione di Bloch accenna ad una classe dirigente, in quel caso militare, che non vuole ammettere le proprie responsabilità nella disfatta. Credi che ci siano somiglianze con l’attuale gestione – urbana – della pandemia da parte delle istituzioni pubbliche?

Marc Bloch scrive “La strana disfatta” nel mezzo di eventi tragici che porteranno, tra l’altro, alla sua morte: i nazisti sono appena entrati a Parigi e lui trova la forza per ricorrere ai suoi strumenti, quelli dello storico, per sollevarsi dal momento e cercare di analizzarne le cause: “Chi ha sbagliato? Il sistema parlamentare, la truppa, gli inglesi, la quinta colonna, rispondono i nostri generali. Tutti, tranne loro”. Come sempre, nessun paragone storico vale per se stesso. Semplicemente, io credo che la pandemia sia un evento periodizzante, e che ciascuno – compresi gli amministratori delle grandi città – sia stato messo di fronte alla responsabilità dell’analisi (peraltro è ciò che mi ha indotta a scrivere il libro) ma anche a quella dell’azione immediata, non delegabile. Per fare un solo esempio, durante le prime settimane di lockdown, insieme agli altri assessori e al sindaco abbiamo stilato un documento operativo, “Milano 2020. Strategie di adattamento”, che ha posto le basi per gli interventi puntuali dei mesi successivi: sul commercio, sull’urbanistica, sul lavoro in remoto, su spazi e tempi di una città che viveva il salto brusco dai successi internazionali dell’ultimo decennio al blocco imposto da Covid-19. Permettimi però di usare ancora il senso della citazione di Bloch: quel “tutti, tranne loro” rimanda alle responsabilità specifiche di chi governa ma anche al senso di responsabilità di ciascuno. Nel 2020 e per buona parte del 2021, con le frontiere chiuse (compresi gli aeroporti a ridottissima circolazione), gli spazi che si restringevano e le strade deserte, i riders avevano il coraggio di solcare le vie in bicicletta e il Comune si è sforzato di dar loro ogni presidio, i quartieri hanno mobilitato energie solidali raccolte nella piattaforma “Milano aiuta” e migliaia di cittadini si sono attivati trasformando le loro competenze professionali e il loro tempo in strumenti di solidarietà collettiva. Insomma, scommettere sulla prossimità ed esserci “allenati” per anni alle pratiche di innovazione sociale ha garantito una forza che un approccio dirigista o “comune-centrico” non avrebbe mai consentito.

Superare il dualismo tra città e periferia, abbracciando il modello delle glocal-cities suggerite da Piero Bassetti, suggerisci possa superare il concetto di stato nazione che dal 1648 definisce le unità territoriali di base delle policies, ossia gli stati. Come cambierebbe la governance delle glocal-cities, in uno scenario di “sistemi urbani transnazionali”? 

La domanda, a mio avviso, attiene al ruolo delle metropoli in un mondo profondamente modificato: dalle tecnologie digitali, dalla mobilità delle persone, dalla demografia e dalla pandemia. Non dimentichiamo che il Covid-19 ha indotto moltissimi autorevoli studiosi di tutto il mondo a domandarsi se questo trauma non sia il sintomo della “fine delle città”. Per questo ho intitolato il primo capitolo del libro “La città è morta, viva la città”: secondo me, dopo aver guardato nel vaso di Pandora scoperchiato dalla pandemia, si scopre che oggi, domani e dopodomani le città vivono ancora. Certo, i colpi inferti alle attività fieristiche, il calo dell’occupazione e l’effetto del lavoro da remoto sui city users (che erano pendolari e adesso invece esercitano il proprio mestiere fuori dai confini amministrativi), il calo del Pil, del reddito pro-capite e dell’offerta culturale pesano come macigni. Esercitando da dieci anni le deleghe al lavoro, al commercio, a moda e design ho misurato concretamente cosa ciò significhi per settori fondamentali che legano Milano al resto d’Italia e al mondo. Eppure, analisti attenti come Richard Florida, Andrés Rodriguez-Pose e Michael Storper ipotizzano che la tendenza al “winner-takes all” che ha caratterizzato le relazioni tra metropoli e resto del pianeta fino alla pandemia non subirà rilevanti cambiamenti. E se questo è vero, in Città Prossime io tento di argomentare che il principale punto politico su cui concentrarsi, anche governando le metropoli, è il rapporto con le città medie protagoniste della “vendetta dei luoghi che non contano”: cioè di una progressiva divaricazione di redditi, opportunità e condizioni di vita che si è riflessa, in Europa e in tutto l’occidente, in una costante difformità dei comportamenti elettorali. Schematizzando, ma non troppo: le metropoli escono dalle urne progressiste, mentre tutto ciò che città non è tende al voto di conservazione o populista. Nel capitolo conclusivo, “Fuori dalla città: riconciliarsi coi luoghi che non contanto” mi concentro su questo, a partire da un dato. In Europa il 57 percento della popolazione urbana vive in città con meno di trecentomila abitanti, e solo un quarto in città sopra il milione. Dunque una delle zone del mondo più urbanizzate è popolata di città su scala ridotta. Noi italiani contiamo solo nove centri sopra i trecentomila abitanti. Di fatto, siamo tagliati per intercettare prima di altri, sperimentandole, le forme di convivenza post-pandemia. E in questo processo anche le città medie hanno un ruolo fondamentale. Come scrive l’amico Paolo Manfredi: provincia, non periferia. Nella mia esperienza, ciò non nega – anzi probabilmente rafforza – la tendenza delle metropoli globali a dialogare tra loro su policies ad ampio spettro: penso all’alleanza delle decent-work cities, oppure al C-40 sulla transizione ambientale, o ancora all’alleanza per trattare “alla pari” con le grandi piattaforme digitali le cui scelte condizionano ampiamente gli stili di vita urbani. Ne sono diretta testimone per aver collaborato alle relazioni progettuali, dal 2011 a oggi, con Seoul, New York, Shanghai, Barcellona e Parigi.    

Trovo molto interessante la figura di quelli che il sociologo Bonomi definisce “Innovatori per disperazione” (…) “nuovi milanesi per scelta e non per nascita, interessati a guadagnare spazio individuale e collettivo sulla scena pubblica”. Cosa sta facendo Milano per riportarli sul territorio urbano dopo quasi due anni di pandemia che ha sfrangiato i legami lavorativi e sociali costruiti nel capoluogo? Come potrebbero rappresentare una classe politicamente rilevante laddove il loro reddito non fosse significativo (se paragonato a quello di altri gruppi di pressione urbani, più tradizionali – es. associazioni di categoria, sindacati, ecc.) e laddove non trovassero un credo politico disposto a rappresentarli?

Permettimi intanto di sottolineare che il vostro lavoro – il tuo e di De-Lab – è un ottimo esempio dell’avanzata degli innovatori sociali. Lasciamo da parte la “disperazione”: si intende che per una larga fetta delle persone che animano Milano – molti dei quali non vi sono nati, tanti dei quali non vi abitano stabilmente – innovare è una condizione obbligata. Sono un gruppo sociale emergente, tutt’altro che una “nicchia”, che ha giocato positivamente un ruolo nello sviluppo, tutto sommato armonico, della città nell’ultimo decennio. Gli innovatori sociali hanno assunto un ruolo chiave nel facilitare il rapporto tra ceti medi in trasformazione e sfera politica in cerca di rappresentanza e protagonisti. Le esperienze di economia collaborativa e digitale, di economia green, insieme a quelle dell’impresa sociale, del terzo settore, della cooperazione (anche for-profit) e della nuova manifattura rappresentano anche una risposta all’illusione del governo “disintermediato” (figlio cioè del tramonto dei corpi intermedi). Anche quando osservato dalle città, il nodo delle condizioni di vita, di reddito e occupazionale dei ceti medi sembra la sfida del nostro tempo: parliamo delle aspettative di vita e di status di quella grande parte della popolazione in età lavorativa, mediamente scolarizzata, largamente socializzata all’utilizzo delle nuove tecnologie e della rete, urbana nei modelli di consumo e negli stili di vita prima che nel domicilio. Insomma, gli innovatori sociali fanno pienamente parte di quella classe media che, per la prima volta dal dopoguerra, registra traiettorie di vita decrescenti rispetto alle generazioni precedenti. La scommessa delle politiche sperimentate in questo decennio a Milano – che ho descritto nel libro e di cui si può trovare illustrazione aggiornata nel dossier “Il capitale urbano” (cioè il rapporto di fine mandato del mio assessorato) è prima di tutto sul metodo e sull’obiettivo: rendere protagonista chi tale non nasce, ingaggiare le energie di questo “blocco sociale” per incanalarlo nel processo di governo della città. Credo non sia un caso se l’applicazione di questo disegno ha coinvolto in modo nuovo anche il personale dell’ente comunale, promuovendo fin nell’interno della struttura una fascia di persone destinata a ulteriori responsabilità negli anni che ci aspettano, anche in ottica di attuazione concreta e locale di strumenti generali come il PNRR.  

Il quarto capitolo tematizza il ruolo delle donne nella formazione di politiche pubbliche più efficaci. La loro marginalità è paragonabile a quella dei giovani, anch’essi sotto-rappresentati tra gli attori di policies riformiste urbane? 

In Europa meno del 30% dei decisori politici è donna. Le città europee sono rette da meno del 15% di sindache. Nelle elezioni amministrative del 2016 sono state elette meno sindache che nella tornata del 1946. Mi sembra che questi dati parlino da soli. Il punto è che non abbiamo bisogno di più politiche pubbliche dedicate alle donne, come spesso si sente dire. Ma che abbiamo bisogno di più donne che decidano per migliori e più efficaci politiche pubbliche. Anche a livello municipale, dove per altro, storicamente, il protagonismo delle donne nella vita pubblica è stato più visibile.

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