Onorati di poter condividere con voi l’intervista realizzata al professor Zamagni, ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna (Facoltà di Economia) e Adjunct Professor of International Political Economy alla Johns Hopkins University, Bologna Center. Massimo esperto di Economia Civile, ha scritto numerosi libri tra cui “Responsabili” – ed. Il Mulino, già recensito da De-LAB in una precedente newsletter Buona lettura!
Si parla spesso di modelli economici alternativi, ma la realtà è che in gran parte delle università italiane si segue e si insegna ancora un paradigma economico che è alla base di molti dei problemi socio-ambientali del nostro secolo. In pochissime università si insegna, per esempio, l’Economi Civile e siamo di fronte a ciò che lei, nel suo libro “Responsabili” definisce adiaforizzazione: che cosa ne pensa?
L’economia civile è un paradigma, uno sguardo, che ha a che fare con il modo in cui si vede la vita. Nasce a Napoli nel ‘700 in ambito cattolico e comprensibilmente sparisce per i due successivi secoli in cui, storicamente, altri approcci socio-culturali hanno avuto la meglio. Torna in auge nel mondo anglosassone recentemente e prevedo che anche in Italia nei prossimi 10 anni tornerà ad essere centrale: in Università si comincia già a parlarne, poi vorrei ricordare il progetto “The Economy of Francesco” a cui hanno aderito centinaia di giovani economisti che poi diventeranno professori. Infine – si – gli attuali docenti cinquantenni sono legati al vecchio paradigma e non hanno la forza di cambiare ma quando andranno in pensione le cose cambieranno. Io sono positivo, i giovani sono innamorati di questo paradigma e loro sono il futuro.
Si parla spesso di Innovazione Sociale ma pochi si assumono il rischio di innovare davvero. Anche a livello di grant, sono pochissimi quelli che sostengono la parte più sperimentale dei progetti di innovazione sociale e spesso sono pubblici, non privati. Che sostenibilità può garantire un sistema che ha paura dei rischi legati all’innovazione (anche sociale)?
Esistono mappature di “comunità intraprendenti”, cioè comunità che fanno Innovazione Sociale. Le risorse a loro sostegno ci sono (fondazioni bancarie, Fondo Sociale Europeo). Poi non dimentichiamo le società Benefit che devono per statuto sostenere l’Innovazione Sociale… parliamo certo di fenomeni recenti, relativi ai primi anni 2000, ma segnano una tendenza. E poi c’è il settore della finanza d’impatto, che lega l’ottenimento di fondi alla dimostrazione di impatti positivi. Siamo sul crinale di una trasformazione … anche se è vero che spesso non si finanzia la parte embrionale dei progetti. Ad ogni modo, segnalo il progetto della Borsa Valori Sociali, che raccoglie fondi per chi vuol partire.
La distinzione profit/non-profit, dal punto di vista operativo è sempre più sottile. Sarà possibile secondo lei ragionare in futuro di un mondo “ad impatto vs. non-ad impatto”, tralasciando che chi genera impatto sia un profit responsabile o un terzo settore attivo sul mercato?
La distinzione profit / non-profit è stata introdotta nel dopoguerra ma ora non ha più senso. Gli Stati Uniti nel 1973 hanno introdotto il termine “Terzo Settore”, che già supera la precedente distinzione. Il fatto che moltissimo Terzo Settore abbia goduto di bandi ad hoc era dovuto alla necessità di supportarli in quanto fragili … ma col tempo questi bandi scompariranno. Vedo il mondo di chi opera nel mercato in modo responsabile come un lago pieno di pesci ed è giusto che siano di tipo diverso… l’importante è non avere squali.
Nel suo libro si cita un punto molto importante, ossia il paradosso del Management Etico, cioè aziende perfettamente in regola con documenti di responsabilità sociale ma non etiche… quelle che lei indicava come “cannibals with forks”. Si sono civilizzati i modi di intervento ma la CSR non necessariamente intacca il substrato motivazionale degli agenti. E quindi?
Quindi occorre passare alla responsabilità civile delle imprese. Il meccanismo del controllo distrugge il concetto di responsabilità perché lo rende procedurale. Serve la coscienza delle imprese … non occorrono stati di polizia, occorre creare legami di fiducia, perché il capitale reputazionale è molto più costoso di una possibile multa.